I templi di Angkor: Angkor Wat e Ta Prhom

Ci siamo. Inizia la nostra personale maratona di  Siem Reap.

La prima tappa della nostra visita è lui: Angkor Wat!

Inutile dire che una delle motivazioni che ci hanno portato in Cambogia è proprio visitare questo luogo di cui si narrano meraviglie. Avrei voluto venirci qualche anno fa, quando c’erano meno restrizioni e soprattutto meno comitive. Egoisticamente un luogo così mi piacerebbe vederlo deserto. Solo io, lui e Giottino. Al massimo un altro paio di persone, giusto per farsi scattare qualche foto.

Ovviamente non è possibile, anzi, per entrare al complesso di Angkor si trovano vari check point dove guardie in camicia rosa (bleah, rosa!!!) controllano i biglietti dei turisti stranieri. L’unica volta che abbiamo dimenticato di fermarci siamo stati richiamati all’ordine dai berci dei guardiani. A una rocambolesca inversione a U su strada trafficata sono seguite debite e profonde scuse del nostro giovane conducente, che si era scordato la sosta di rito e deve essere stato infamato a dovere… Oppure no, faceva il contrito e mi ha fatto un antani, ma recitato bene. Tanto… e chi lo capisce il cambogiano!

Ma che ce frega. Siamo all’altro capo del mondo e stiamo una favola. Come diceva il prode Ceccherini: “Gli fa una seba la pioggia all’uomo ragno!” E noi siamo arrivati finalmente alla mèta. O meglio… davanti alla mèta.

Al tempio ci arriviamo infatti da una passerella galleggiante e rimbalzina che permette di attraversare il fossato passando direttamente sull’acqua e che è usata al posto dell’ingresso monumentale ormai vietato ai turisti (sob, sigh, dolore e disperazione!). Il complesso è enorme e già di mattina il corridoio di accesso rialzato è una piastra di pietre roventi che rimandano su calore e polvere. Percorrerlo sotto il sole è una mezza tortura, ma ne vale la pena. Scattano anche le foto di rito, che verranno risparmiate ai deboli di stomaco, visto che sotto il sole cocente la nostra sfattezza e l’abbigliamento da turista fai da te non sono una visione adatta alla fascia protetta.

A soffrire con noi, anzi, a guardarci soffrire, c’è una guida che fatichiamo a capire e che snocciola dati a macchinetta, ma che non sembra capire molto bene le nostre domande.  Eppure stiamo usando un basic English che più basic non si può! Ascoltando in giro ci rendiamo conto che non siamo stati molto fortunati ma poteva andare peggio. Senza infamia e senza lode. Avremmo preferito il ragazzo che accompagnava una famigliola asiatica e che si è presentato come Justin Bieber. Peccato. Ma come sopra: ma che ce frega… No, via… un po’ rosichiamo, ma nonostante qualche inciampo fonetico, qualcosa riusciamo comunque a tirarne fuori e per il resto delle domande … sia benedetta Wikipedia!

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Tra una descrizione dei bassorilievi e un giro per i vari livelli, noi che siamo notoriamente visitatori lenti, finiamo per passare una mezza giornata su e giù per i tre piani del tempio e per provarne anche le diverse toilet, esterne e interne, che contrariamente alle aspettative sono meglio di quelle di un comune autogrill italico.

All’interno fortunatamente la pietra millenaria offre un accenno di frescura, mentre saliamo scalette di legno rapidissime o gradoni misura gigante di cui non ci spieghiamo le proporzioni. Qui le porte sono basse per far inchinare il fedele di fronte al divino, è va bene, ma i gradoni da arrampicata libera? Il fedele evidentemente deve guadagnarsi l’ascesa ai piani alti, che raffigurano appunto la dimensione celeste, fingendo di scalare l’Everest. Dante a questi gli avrebbe fatto vento.

Vento… ah, benedetto sia il refolo di vento che ogni tanto ci raggiunge! Il caldo è tremendo, l’umidità si taglia a fette. Si beve e si suda, si suda e si beve, e intanto si cerca il nostro baldo driver, preso direttamente in ostello, che ci avvista prima ancora che ci sembri di essere entrati nel suo raggio visivo e ci trasmigra verso la seconda tappa dello “small circle”, il percorso tra i templi più vicini alla città e che noi abbiamo già deciso di fare in un paio di giorni con calma piutosto che in uno di corsa.

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Due cinghiali appollaiati su una delle balconate con scala a gradoni di Angkor Watt.

La famigerata seconda tappa è il meraviglioso, stupendo, decadente, verdissimo, naturalisticamente imponente Ta Prhom.

Il primo che si azzarda a chiamarlo in mia presenza “tempio di Tomb Raider” rischia una tacchettata sul mellino per aver osato accostare cotanta lussureggiante beltade a un troiaio di film. Siete avvisati.

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Il Ta Prhom è completamente diverso da Angkor Wat, che di fatto è un’opera imponente e in buone condizioni. È la San Galgano cambogiana. Con quel fascino diroccato e la natura che ha ripreso possesso dello spazio insinuandosi tra pietra e pietra. È inutile, il fascino romantico della rovina qui è elevato all’ennesima potenza, e non importa che sia un circo di turisti, ci sono angoli in cui rintanarsi e godersi la visita. Magari dietro un architrave un po’ malmesso…

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Questo tempio è la dimostrazione che per quanto ci si possa illudere di essere la specie eletta, le nostre opere prima o poi passano e madre natura si riprende ciò che è suo. I secolari, forse millenari ficus strangolatori affondano le radici nelle pietre in maniera quasi scultorea.

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Insomma, è stato amore. Negli ultimi 10 giorni abbiamo visitato altri templi, ma al Ta Prhom piace vincere facile. Non c’è storia.

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Avremmo passato anche qualche giorno a girare e abbracciare ogni singolo albero, anche a costo di scalare pietrone su pietrone, ma prima o poi qualcuno avrebbe chiamato la neuro. Ma l’amore è amore e anche un po’ pazzia, no?

Ok, siamo sinceri, anche l’opera umana non è stata da poco. Solo trasportare a dorso di elefante questi enormi blocchi di pietra e decorarli con fregi e figure qualche credito lo merita.

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E poi… anche le pietre da qualche tonnellata fanno ombra dal caldo.